L'essere umano non sarebbe un “lupo per l’uomo”, come scrisse l’autore Plauto, circa due secoli prima di Cristo? È ovvio che gli esseri umani si comportano a volte in modo strano e crudele, chiaramente contrario al buon senso e alle leggi della natura. Però è anche capace di bontà, di saggezza e di una facoltà d’intendimento che va oltre quella degli animali. Tuttavia, il dibattito per sapere l'uomo sarebbe fondamentalmente buono o corrotto (la questione del peccato originale), e quindi se è stata la vita in società a migliorarlo o a corromperlo, ha agitato le menti per tanto tempo.
Il filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679) riteneva, nella sua opera Leviatano, che l’essere umano, come gli animali, ha una “preoccupazione costante sull’avvenire”. Nel suo stato naturale, sarebbe in cerca di potere per “paura della morte, della povertà e di altre disgrazie”. Pensava che fosse necessario organizzare una società autoritaria per mantenerlo sulla giusta via: “È quindi ovvio che per il tempo in cui gli esseri umani vivono senza una potenza comune che impone a tutti loro un rispetto misto a terrore, la loro condizione è quella che si chiama guerra; e tale guerra è di tutti contro tutti (1)”. Ma già all'epoca, il contatto assai brutale dei coloni europei con i "selvaggi" d'America aveva cominciato a suggerire che innanzitutto la società dell'epoca non era così civilizzata come si diceva; e inoltre, che i popoli cosiddetti "primitivi" potevano avere valori e codici di comportamento assolutamente degni di rispetto.
Da qui nacque una visione del "nobile selvaggio", che si opponeva a quella di Hobbes. Anche se Jean-Jacques Rousseau non usò questo termine, dichiarò nel suo "Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini" (pubblicato a Ginevra nel 1755), che concepiva l'uomo nel suo stato di natura nel modo seguente: “Lo vedo saziarsi sotto una quercia, dissetarsi al primo ruscello e trovare il suo letto ai piedi dello stesso albero che gli ha fornito il pasto; ed ecco che i suoi bisogni sono soddisfatti.”
Se ci fermassimo a questo punto, il dibattito rimarrebbe teorico visto che noi viviamo in uno “stato di società”, cioè in un ambiente fortemente organizzato e urbanizzato. La vera domanda – soprattutto per chi si trova a capo di un'azienda o di un'associazione – sarebbe questa: come organizzare i membri del proprio gruppo in modo che diano il meglio di sé stessi? Se non vogliamo che il gruppo degeneri in un'entità autoritaria oppure, al contrario, sprofondi nel caos, in che cosa dovrebbe consistere il contratto sociale che lega l'individuo al suo gruppo?
A questa domanda, il filosofo americano L. Ron Hubbard (1913-1986) ha fornito una risposta nel suo saggio "Un vero gruppo", stabilendo doveri reciproci:
"Ogni membro del gruppo ha il diritto di esigere il massimo e più alto livello negli ideali, nel fondamento logico e nell'etica del gruppo e di esigere che questi vengano mantenuti. Un vero gruppo deve ai suoi singoli membri i mezzi di sostentamento e un'opportunità per le loro generazioni future."
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(1) https://www.joachimschmid.ch/docs/PAzHobbeThoLeviatha.pdf
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